Ferruccio Maruffi è partito per l'Ultimo Viaggio
Nato a Grugliasco, se ne va uno degli ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti
a lungo Presidente dell'A.N.E.D. - Associazione Nazionale Ex Deportati
Raffaele "Ferruccio" Maruffi nacque a Grugliasco il 4 marzo 1924.
Di famiglia antifascista, Ferruccio scelse di unirsi ai Partigiani delle Brigate d'Assalto Garibaldi già attive in Val di Lanzo e partecipò così alla Guerra di Liberazione.
Il papà
Giuseppe, Vicecomandante della 48° Brigata d'Assalto Garibaldi, venne
orribilmente torturato e poi ucciso dai nazifascisti il 20 dicembre 1944
a Robilante (Cuneo), ma Ferruccio apprenderà della morte del padre solo
dopo la Liberazione.Raffaele "Ferruccio" Maruffi nacque a Grugliasco il 4 marzo 1924.
Di famiglia antifascista, Ferruccio scelse di unirsi ai Partigiani delle Brigate d'Assalto Garibaldi già attive in Val di Lanzo e partecipò così alla Guerra di Liberazione.
Ferruccio fu arrestato nei dintorni di Ceres l'8 marzo 1944, durante
un rastrellamento nazifascista: fu detenuto a Lanzo e successivamente alle carceri
Nuove di Torino, venne poi trasferito a Bergamo e deportato nel campo di sterminio nazista di Mauthausen, in Austria.
Classificato come "prigioniero per motivi di sicurezza" con il numero di matricola 58973, fu trasferito anche nei sottocampi di Gusen I, Schwechat, Floridsdorf e Gusen II.
Il 5 maggio 1945 alcuni reparti dell'XI Divisione corazzata americana liberarono il campo di Mauthausen e Ferruccio iniziò il viaggio di ritorno verso l'Italia, verso casa, dove giungerà solo in giugno, portandosi comunque appresso diverse malattie contratte durante la deportazione che lo costringeranno ad anni di cure e medicine.
Dopo la Liberazione ha fondato l'A.N.E.D. - Associazione Nazionale Ex Deportati Politici nei Lager Nazisti, ha e iniziato un'intensa opera di testimonianza, in particolare nelle scuole, proseguita fino all'ultimo giorno che gli è stato possibile: consacrò la sua vita affinché le nuove generazioni di ogni tempo sapessero della deportazione e della terribile esperienza dei lager nazisti.
Per lunghissimi anni è stato Presidente dell'A.N.E.D. nella Sezione di Torino e in Piemonte, traghettando l'Associazione fino ad oggi, in cui a guidarla sono le generazioni successive a quella della Resistenza.
Classificato come "prigioniero per motivi di sicurezza" con il numero di matricola 58973, fu trasferito anche nei sottocampi di Gusen I, Schwechat, Floridsdorf e Gusen II.
Il 5 maggio 1945 alcuni reparti dell'XI Divisione corazzata americana liberarono il campo di Mauthausen e Ferruccio iniziò il viaggio di ritorno verso l'Italia, verso casa, dove giungerà solo in giugno, portandosi comunque appresso diverse malattie contratte durante la deportazione che lo costringeranno ad anni di cure e medicine.
Dopo la Liberazione ha fondato l'A.N.E.D. - Associazione Nazionale Ex Deportati Politici nei Lager Nazisti, ha e iniziato un'intensa opera di testimonianza, in particolare nelle scuole, proseguita fino all'ultimo giorno che gli è stato possibile: consacrò la sua vita affinché le nuove generazioni di ogni tempo sapessero della deportazione e della terribile esperienza dei lager nazisti.
Per lunghissimi anni è stato Presidente dell'A.N.E.D. nella Sezione di Torino e in Piemonte, traghettando l'Associazione fino ad oggi, in cui a guidarla sono le generazioni successive a quella della Resistenza.
Una delegazione dell'A.N.P.I. "68 Martiri" di Grugliasco porterà un ultimo saluto a Ferruccio, rendendogli onore con la presenza della bandiera dell'ANPI e dei foulard partigiani.
Noi dell'ANPI di Grugliasco lo abbiamo conosciuto per la sua infaticabile presenza nelle scuole di Grugliasco, e anche quando non poteva essere presente abbiamo consegnato agli studenti e agli insegnanti le sue testimonianze e i suoi scritti, così lucidi ed efficaci. Ferruccio ci ha spiegato bene, oltre ogni retorica, che "alla base del lager non c'era solo il progetto di uccidere l'avversario politico o l'ebreo, ma soprattutto il disegno di creare un impero economico quale mai sarebbe esistito. Perché far lavorare uomini e donne per dodici ore al giorno, senza paga e dando loro poco da mangiare, consente a qualunque industria di progredire. Del resto i tedeschi maschi erano quasi tutti al fronte e le industrie belliche avevano continuo bisogno di manodopera".
Ferruccio aveva capito che la memoria, per essere davvero utile, non doveva semplicemente essere raccontata, ma trasmessa: non era importante solo descrivere la propria esperienza personale e i fatti storici, ma era necessario entrare dentro i meccanismi e le dinamiche che hanno generato gli eventi, bisognava far comprendere motivazioni e conseguenze dell'agire umano, affinché i crimini del fascismo e del nazismo non si ripettessero mai più.
Buon viaggio compagno Ferruccio,
proseguiremo la tua testimonianza con la stessa determinazione e la
stessa urgente passione che hai saputo trasmetterci, non solo per la
difesa della memoria contro ogni revisionismo, ma per l'impegno nel
presente a tutela della Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza,
oggi pesantemente sotto attacco.
Ferruccio: PRESENTE!
Ricordiamo Ferruccio con la sua testimonianza pubblicata su Luna Nuova n°5 del 22/01/2010.
SCAMPATO A
QUELL’INFERNO
di Paolo Fossati
Fonte: Luna
Nuova n° 5, Venerdì
22 Gennaio 2010
Parla Ferruccio Maruffi,
fondatore dell’Associazione Ex Deportati
Il ricordo della
terribile vita nel campo di Mauthausen, un posto dove nasceva un progetto di
schiavitù globale
Ci hanno sputato in faccia, preso a
calci, irriso e umiliato in tutti i modi, italienisch banditen, italienisch
makkaroni, italienisch schifo, puah! Ci hanno torturato fisicamente e
moralmente, ci hanno trattati come bestie, hanno tentato di annientarci, come
popolo e come individui.
Ma se volete conoscere un uomo che non
ha rinunciato a difendere la dignità degli italiani anche nel momento più
terribile, se volete guardarlo negli occhi, stringergli la mano e dirgli
grazie, bene, allora dovete incontrare Ferruccio Maruffi, il presidente
piemontese dell'Associazione Nazionale degli Ex Deportati (ANED), a farvi
raccontare cos'era Mauthausen, il campo di sterminio dove venivano rinchiusi i
dissidenti politici al nazifascismo. Non un filo di odio, non un briciolo di
rancore, oggi come allora, “perché se vuoi sopravvivere al lager devi
imparare a non odiare e risparmiare ogni brandello di energia”.
Ferruccio Maruffi, unico figlio di
Giuseppe Maruffi e Marina Guala, nasce a Grugliasco il 4 Marzo 1924. Papà e
mamma sono originari dell'Acquese. L'infanzia scorre serena. Dopo il diploma
conseguito all'istituto tecnico Sommeiller, inizia a lavorare come come
disegnatore meccanico alla Pininfarina. In famiglia il giovane respira
un'atmosfera di ostilità nei confronti del regime. Sarà infatti papà Giuseppe,
di idee repubblicane, a trasmettergli i valori dell'antifascismo militante.
Dopo l'8 settembre 1943 si rifugia in una camera ammobiliata in via Belfiore
17. Inizia il periodo di clandestinità. Nel frattempo il padre entra a far
parte della Resistenza, Maruffi ricorda: “Da qualche tempo divideva con me
la stanza di via Belfiore e tutte le mattine lo vedevo uscire di casa molto
presto. Non mi diceva nulla, né dove andava, né quando sarebbe tornato. Nei miei
confronti era esageratamente protettivo, avrebbe voluto chiudermi in gabbia
come un canarino”.
Il ragazzo però capisce tutto e, non
volendo essere da meno, a gennaio lascia Torino per la valle di Lanzo. È il
1944. Sul tavolo un biglietto: “Volevo anch'io dare il mio contributo alla
Resistenza e dimostrare a mio padre di essere un uomo forte e coraggioso. Forte
e coraggioso lo sono diventato, mio malgrado, ma mio padre non l'ho rivisto più”.
Il Partigiano Giuseppe Maruffi, infatti, verrà bruciato vivo dai fascisti il 19
dicembre 1944 a Robilante, in provincia di Cuneo. Ferruccio raggiunge le prime
formazioni sopra Ceres, con cui trascorre appena un mese, perché a inizio marzo
fascisti ed SS lo catturano durante una retata. Maruffi è messo al muro assieme
ad un giovane siciliano, i fascisti vorrebbero eliminarli subito. Con la faccia
schiacciata contro i freddi mattoni rossi, tra urla e bestemmie, distingue il
rumore meccanico del caricatore. “È finita, pensai. Improvvisamente
intervenne un ufficiale tedesco che fermò l'esecuzione. Con il tempo capii
perché. Nessuna pietà, nessun gesto magnanimo. Io, come pure il ragazzo
siciliano, eravamo giovani, in buona salute, perfetti per essere sfruttati nei
campi di sterminio”.
Ecco, è proprio questo un elemento che
Maruffi non si stancherà mai di sottolineare: “Alla base del lager non c'era
solo il progetto di uccidere l'avversario politico o l'ebreo, ma soprattutto il
disegno di creare un impero economico quale mai sarebbe esistito. Perché far
lavorare uomini e donne per dodici ore al giorno, senza paga e dando loro poco
da mangiare, consente a qualunque industria di progredire. Del resto i tedeschi
maschi erano quasi tutti al fronte e le industrie belliche avevano continuo
bisogno di manodopera”.
Dopo un breve periodo al carcere “Le
Nuove” di Torino, Maruffi affronta un viaggio di tre giorni e tre notti in un
carro bestiame con altre quaranta persone, per lo più operai che avevano
scioperato nelle fabbriche del nord. L'arrivo a Mauthausen lascia pochi spazi
al dubbio. Racconta: “Varcammo il portone d'ingresso e vedemmo uomini
magrissimi, con indosso una casacca a strisce verticali grigie e blu che
spingevano a fatica un carretto, su cui erano adagiati parti di corpi umani. Li
trasportavano verso una baracca dal cui camino usciva un denso fumo nero e
maleodorante. Capimmo immediatamente dove eravamo finiti”.
Dopo il taglio dei capelli e dei peli
in ogni parte del corpo, ai deportati viene consegnata una placca metallica con
inciso un numero progressivo. “Il mio era 58973. Da quel momento smisi di
essere un uomo, per diventare un numero”. Le giornate hanno ritmi
inimmaginabili, specie nei campi dove Maruffi è di volta in volta costretto a
lavorare: Gusen I, Schwechat (distrutto da un bombardamento alleato) e Gusen
II. Ricorda: “Il periodo più brutto l'ho passato a Gusen II, poco distante
da Mauthausen. Costruivamo parti di arerei da caccia e lavoravamo per dodici
ore filate nelle gallerie, ritenute più sicure perché di difficile
individuazione per i bombardieri americani e inglesi. Non ricordo di aver
patito tanta sete come in quelle gallerie, un'arsura che seccava la gola da
togliere il fiato. La sveglia era alle quattro e mezza del mattino. Dopo la
conta e assurdi esercizi ginnici per gente che a stento si reggeva in piedi, ci
costringevano a lavarci con acqua fredda, che fosse estate o inverno. Il sapone
imparammo presto a non usarlo, perché scoprimmo che era fatto con le ossa
macerate dei deportati. Quanto al cibo, al mattino distribuivano dolo un po' di
liquido scuro, un surrogato del caffè, a mezzogiorno era la volta di una zuppa
di cavoli, mentre la sera consegnavano un tozzo di pane e una fetta di salame.
Stop. Le ore di sonno avrebbero dovuto essere cinque, ma tutte le notti
venivamo regolarmente svegliati per la conta. Tornava a dormire solo chi
passava il controllo dei pidocchi: dovevamo sfilare davanti alle SS e
dimostrare di aver rimosso tutti i pidocchi dai vestiti. In caso contrario
venivamo violentemente frustati per venticinque volte. Eravamo sempre sorvegliati,
dalle SS o dai kapò. Questi ultimi si scatenavano come cani rabbiosi al minimo
errore. C'erano pestaggi in tutti i momenti. Io rimediai una bastonata sulla
schiena che mi procurò una lacerazione al polmone destro. Al ritorno dovetti
sottopormi a lunghe e dolorose cure per rimarginare la ferita. Ancora oggi
respiro con un polmone solo”.
A proposito della sorveglianza,
Maruffi tiene a raccontare un episodio di un'intensità emotiva eccezionale, per
il quale, dice, è valsa la pena essere stato a Mauthausen. Maruffi: “Ci trovavamo in galleria e ad un deportato
francese, di nome Emile, cadde a terra un attrezzo da lavoro. La luce fioca gli
impedì di recuperarlo subito. Si attardò quel tanto di troppo da attirare
l'attenzione del kapò, che gli piombò addosso come una furia. Arrivò anche la
SS e, improvvisamente, scoppiò una parola terribile nel lager: sabotaggio. La
morte era sicura, ma in questi casi tutti dovevano assistere all'esecuzione.
Eravamo già rientrati nella baracca e ad un tratto irruppero i kapò. Emile
venne fatto accovacciare con la testa in giù e il sedere in aria, in segno di
estrema umiliazione. La conta delle frustate doveva essere scandita dallo
stesso deportato. Un, deux, trois... Ma poco dopo Emile cedette, stremato. E
allora accadde l'incredibile. Un altro deportato francese, Michel, iniziò a
intonare, con un filo di voce, la Marsigliese. Il poveretto, sentendo il suo
inno nazionale, si rianimò e riprese a contare. A Michel si unirono presto
altri deportati transalpini. Come minimo ci avrebbero dovuti uccidere tutti,
invece, quando ebbero massacrato a morte Emile, i kapò se ne andarono. Provo un
certo entusiasmo, adesso che ci ripenso, perché fu una sorta di rivolta”.
Quante volte Maruffi, tra il 20 marzo
1944 e il 5 maggio 1945, ha visto la morte, sfiorata quasi?
Fortuna, caso, destino. Fatto è che
quando arrivano gli americani Maruffi è vivo, malandato certo, ma vivo. È
riuscito per un soffio ad evitare il forno crematorio, ultimo e disperato
tentativo delle SS di cancellare le tracce degli scempi compiuti. Viene operato
dai medici a stelle e strisce per un'infezione al collo, rifocillato, accudito.
Poi il fortunoso viaggio di ritorno. Ma prima si verifica un altro episodio
simbolico, da cui Maruffi fa discendere la riconquista della dignità di essere
umano: “Pochi giorni dopo la liberazione del lager, notammo che un kapò, tra
i più terribili, era nascosto al fondo di una baracca. Quando si avvicinò alla
porta per uscire e consegnarsi alla sentinella americana, ci schierammo lungo
il sentiero da cui avrebbe dovuto necessariamente passare. Formammo due file.
Lui dapprima si ritirò indietro, impaurito, poi accennò ad una corsa. Da parte
nostra sarebbe stato sufficiente un gesto e non avrebbe avuto scampo. Gli
puntammo gli occhi addosso, ma non alzammo un dito. Fu una straordinaria
dimostrazione di forza: nessuno voleva mettersi sul suo stesso piano”.
Il 9 giugno, all'arrivo a Porta Nuova,
i superstiti credono di incontrare autorità, gente in festa, musica. Invece
nulla, solo qualche donna anziana in cerca di notizie del marito o del figlio.
“Io
e un amico, avviliti, andammo al bar di via Sacchi, all'angolo con corso
Vittorio. Eravamo magrissimi, sporchi, brutti, indossavamo vestiti di fortuna.
I clienti presenti uscirono a gambe levate. Avevano paura che fossimo
contagiosi. Che momenti terribili. E una volta a casa quella notizia che mai
avrei voluto sentire su mio padre”.
Però Maruffi è un uomo con
straordinarie risorse, che anche oggi dimostra di possedere, e nel dopoguerra
si ricostruisce una vita regolare. Riprende il lavoro, si sposa, ha due figlie.
E soprattutto fonda la sezione piemontese dell'ANED, l'Associazione dei reduci
dai campi di sterminio, con il compito principale di ricordare e far ricordare.
Le conferenze nelle scuole, i viaggi a
Mauthausen e i numerosi libri finora scritti (a partire da “Codice Sirio”
del 1996, fino a “Rimini mon amour” di prossima pubblicazione, passando
per “La pelle del latte”, “La fanciulla vestita di blu” e “Fermo
posta paradiso”, per citarne alcuni) vanno in questa direzione.
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